Da quando ho cambiato il mio rapporto con lo smartphone, anche la mia vita è cambiata. Può sembrare un’iperbole, ma non lo è. Cosa succede se rimettiamo in discussione la natura e l’utilizzo dell’oggetto che ha monopolizzato le nostre esistenze? È quello che ho cercato di fare quest’anno, con un percorso di ricerca e sperimentazione nato proprio qui, sulla Settimana Sovversiva.
Oggi vi racconto come sta andando, dopo una prova su strada di qualche mese, prendendo spunto da uno dei contesti in cui il telefonino sembra più irrinunciabile: il viaggio all’estero.
Riassunto delle puntate precedenti: ho pensato che il rapporto tossico e morboso che abbiamo con i rettangoli che ci portiamo in tasca non sia dovuto alla nostra debolezza, a una fantomatica incapacità di concentrarci, o ancora peggio a una scarsa forza di volontà. Il software che abita nei nostri telefoni è studiato chirurgicamente per aumentare il tempo che trascorriamo sulle app, per un motivo molto semplice. Ogni ora che trascorriamo a scrollare video da quindici secondi è un’ora in cui produciamo dati che verranno venduti al miglior offerente, che li userà per venderci cose che non ci servono, facendo leva sui nostri desideri e le nostre zone d’ombra. Sottolineo che il discorso non riguarda solo i social network, ma anche app come Google Maps, che continuano a carpire dettagli della nostra vita, anche mentre lo schermo è spento.
I dati sono il nuovo petrolio. Non a caso, fanno male a noi e all’ambiente.
Se volete recuperare, ho affrontato il tema nel dettaglio in un libretto che sto scrivendo, del quale ho pubblicato un’anteprima proprio in questa newsletter. Il succo è che ho rimosso del tutto i servizi di Google e ho progettato il mio telefono intorno al software libero, con la tesi che se cerco la libertà digitale non potrò mai raggiungerla portandomi in tasca delle catene.
Ma ora torniamo al presente.
Atterrato a Buenos Aires, dopo il controllo dei passaporti, nella mia testa si è acceso un pensiero urgente: “Fabio, sarai qua per quasi tre settimane, ti serve una SIM.” Un tempo avrei ceduto all’impulso da cane di Pavlov e ne avrei prontamente recuperata una nei negozietti che ormai abbondano negli aeroporti. Questa volta, invece, forte del percorso degli ultimi mesi, mi sono fermato e ho avviato un dibattito con me stesso.
Avete presente la gag dei cartoni animati, quella con l’angioletto e il diavoletto che battibeccano e cercano di convincere il protagonista? Ecco.
Il cherubino della libertà digitale diceva: “Sei davvero sicuro che ti serva? Non ti basta un wifi ogni tanto? Non vuoi goderti il momento?”
Il satanasso della paranoia algoritmica ribatteva: “Ma sei matto? Ti serve! È una questione di sicurezza! Cosa fai se ti perdi? Come troverai le strade e i locali? E poi da qua potresti postare cose interessantissime!”
Le persone che ti manipolano cercano sempre di proporti la loro visione come una necessità, o come qualcosa che si fa “per il tuo bene”. Ho imparato a diffidarne, anche quando quella persona è dentro di me. Quindi ho deciso di non prendere una SIM argentina e di limitare il più possibile l’uso del telefono.
Il dubbio è amletico: essere o non essere online? Più ci penso, più realizzo come essere sempre online sia una forma di assenza. È l’opposto della presenza nel momento, dell’attenzione all’hic et nunc suggerita da secoli di meditazione e filosofia. Ogni volta che prendiamo in mano il telefonino interrompiamo la nostra consapevolezza e la traslochiamo altrove, magari verso qualcosa di triste e inutile, come una mail. Ogni notifica è una tassa digitale sul piacere del reale. Tengo a specificare che questi non sono discorsi da santone che ha la verità in tasca, bensì da ex tossico in riabilitazione, che sull’altare della disponibilità costante ha sacrificato fin troppi momenti di vita preziosa. Più faccio passi in questa direzione, più realizzo quanta esistenza mi sia lasciato rubare. Le cose che sto per scrivere vi sembreranno banali, e lo sono, però io me le ero dimenticate e mi fa bene reimpararle con la pratica.
La prima cosa che ho notato della mia esperienza di viaggio offline è come i cosiddetti “tempi morti” siano in realtà pieni di vita. Il potere più infingardo di uno smartphone è riempire gli spazi vuoti e sconfiggere la noia. In realtà, quegli spazi li sta occupando, e la noia che soffoca è un respiro di libertà della mente. Ho iniziato a godermi quelle che chiamo “le schermate di caricamento della vita”: i momenti in coda per comprare un panino, l’attesa di un mezzo pubblico, un tragitto a piedi…
Farlo in un paese lontano, così diverso e al tempo stesso così simile al mio, è stato illuminante. Non avere un telefono in mano mi ha reinsegnato a godermi i dettagli insignificanti. Ho ritrovato il canto degli uccellini, le scritte sui muri, la macchina mezza scassata che passa, il bambino che esce da scuola e trova il nonno a prenderlo, il profumo che esce da quel ristorantino minuscolo, il cane randagio che ruba un boccone tra i resti di un mercato, gli adesivi, le insegne dipinte a mano dei negozi, i panni appesi alle finestre, la luna (che mi pareva strana, e in effetti nell’emisfero australe è a testa in giù!), gli alberi, il rumore delle posate. Le piccolezze della quotidianità sono irrilevanti, prese singolarmente, ma insieme raccontano una storia. E quanto è bello lasciarsi raccontare una storia?
Ho fatto caso ai movimenti del mio sguardo, e a come fosse inebriante allenarlo a saltare da un punto all’altro del mio campo visivo, in cerca di elementi da interpretare. La più semplice delle passeggiate è diventata una spa per il mio cervello. Non mi stupirebbe se ci fossero studi che dimostrano i benefici cognitivi di immergersi nel significante.
Invece di avere il capo chino e lo sguardo fisso su uno schermo, ho guardato avanti, in alto, a sinistra e a destra. Carl Sagan diceva che il passaggio da creature quadrupedi a bipedi è stato il momento che ci ha definito come specie. A un certo punto abbiamo smesso di guardare per terra e abbiamo scoperto che sopra di noi ci sono le stelle. Abbiamo iniziato a vedere i misteri, a chiederci cosa fossero e a voler non solo vivere, ma anche capire. È in quel momento che sono nate la scienza, l’arte, la magia. Ecco, rialzando lo sguardo ho realizzato che il telefonino stava cambiando la postura con cui attraverso la vita, e che in un certo senso nel guardare una notifica stavo rinunciando al potere ancestrale di alzare lo sguardo. Ho riscoperto il lusso di notare un piccolo dettaglio e di perdermi in un treno di pensieri, magari inconcludenti, ma a maggior ragione importanti. Se vogliamo ribellarci alla catena della produttività, dobbiamo lasciare alla nostra mente lo spazio per bighellonare. Negli interstizi delle giornate ho trovato il tempo e la tranquillità per pensare alla mia vita, a chi sono, alle cose che mi sono successe quest’anno (che è stato bello ma con tanti momenti difficili). Mi ha fatto benissimo.
Pur essendo offline, ho potuto fare foto e video. Poca roba, perché il non avere lo smartphone sempre in mano ti toglie quell’impulso vorace di documentare tutto. I pochi scatti li ho fatti per inviarli alle mie persone care in Italia e per raccontare il torneo di Nave Arcade su Livello Segreto, dove ho comunque fatto solo sei post in venti giorni. In ogni caso, trattandosi di Mastodon, una realtà con timeline cronologiche e senza la frusta dell’algoritmo, non mi sono mai dovuto interrompere per scrivere e pubblicare; facevo qualche scatto, continuavo a godermi il momento e poi scrivevo nei momenti di calma, o quando mi andava di farlo. Non ho mai dovuto interrompere la mia presenza.
Ho ripensato con orrore ai tempi, ahimé recenti, in cui mi fermavo per fare una story su Instagram, per poi rifermarmi a vedere se avesse ricevuto commenti o se qualche contatto mi avesse messo un like. Posticipavo la mia vita in nome di briciole di finta fama digitale, e non solo. Cosa stavo facendo, realmente? Guardavo il mondo col preservativo, attraverso lo schermo di un telefono, trasformando le mie esperienze in banalissimo content, di fatto lavorando gratis per un’azienda come Meta, contribuendo concretamente a ciò che odio. E poi, a parte queste considerazioni politiche, ho avuto anche un’epifania più terra terra: le stories e i caroselli sono la versione moderna del “ti faccio vedere le diapositive delle mie vacanze.” Non interessano realmente a nessuno. Le postiamo per vantarci di quello che facciamo? Per sentirci visti? In ogni caso, vanno a finire in un cumulo di contenuti tutti simili tra loro, che verranno consumati dal pubblico meno attento e stimolante di tutti i tempi: un esercito di utenti vittima del doomscrolling.
Il satanasso sulla spalla ha provato a convincermi che con Instagram avrei avuto un bel backup, e che nel documentare in tempo reale avrei costruito un archivio che magari un giorno mi farà piacere rivedere. Beh, anche questa è una bugia. Instagram, e in generale qualsiasi piattaforma centralizzata e commerciale, sono dei luoghi pessimi per la preservazione dei propri dati. Banalmente, potrei venire bannato per le mie idee politiche e perdere accesso al mio account, senza possibilità d’appello. Per quello scopo, sto valutando di mettere su un mio server immich, che mi permetterebbe di fare tutto ciò che fa Google Photos, ma senza regalare il volto dei miei cari agli algoritmi di riconoscimento facciale di Cupertino. Ma questa è un’altra storia.
E con la navigazione, come ho fatto? In generale, da quando ho rimosso Google Maps dal mio telefono, ho ripreso l’abitudine di guardare una mappa prima di uscire, per poi provare a raggiungere la destinazione senza sussidi tecnologici. È bellissimo! Arrivo comunque dove devo arrivare, ma ho lo sguardo libero di esplorare e imparo a conoscere le strade. Nei rari momenti in cui ho avuto bisogno di muovermi rapidamente, e in generale come rete di sicurezza, ho usato Organic Maps. Oltre a essere software libero, basato su mappe accuratissime, create dalla comunità, funziona anche offline. Basta scaricare una sola volta i dati della regione e si ha il mondo in tasca. Funziona divinamente.
Ora che il viaggio è finito e sono qui a Milano, un po’ jetlaggato, a scrivere questo resoconto, sono felice di aver messo il telefonino in secondo piano. Ho vissuto più pienamente e ho la testa piena di ricordi, conversazioni e momenti memorabili. Per quelli, come backup basto io. Chissà quante cose speciali mi sarei perso, e chissà quante ne ho perse in passato, in questi anni di sbronza social.
Vi lascio con una canzone di The Andre, in una registrazione fatta fuori dai social commerciali, su Tele Kenobit, il mio canale di streaming indipendente (che in gennaio tornerà con una nuova stagione di programmi). Nella sua “Specchio nero” ha detto più o meno tutto quello che ho scritto in 10.000 caratteri, ma in due minuti. Che roba forte, la musica.
E buona Settimana Sovversiva!
Kenobit