Questa settimana vi scrivo dalle vacanze! Se non mi avete sentito settimana scorsa, è perché stavo facendo castelli di sabbia con il mio secchiello rosa. Allego prova fotografica. Mi sto riposando e ne avevo molto bisogno. Come spesso succede, l’improduttività si rivela terreno fertile per le riflessioni e mi aiuta a mettere a fuoco i concetti. Interrompo brevemente l’ozio per proporvene uno.
All’inizio di quest’anno, quando ho deciso di lanciarmi all’assalto delle piattaforme, con il progetto di Tele Kenobit e tutto ciò che lo circonda (inclusa la Settimana Sovversiva), mi sono posto il problema della promozione sui social network. Da un lato ci sono Livello Segreto e il Fediverso, due realtà che hanno rispetto del mio tempo, dove posso costruire qualcosa di realmente mio e tessere rapporti concreti con le persone che apprezzano le cose che faccio. Dall’altro, inutile negarlo, c’è il mondo tossico di Instagram e dei social commerciali, che mi impone meccanismi che mi fanno male, ma che al tempo stesso intrappola un grande pubblico, che ho bisogno di raggiungere se voglio che il mio assalto sia efficace.
Posso usare i social commerciali senza che loro usino me? Posso piegarli alle mie esigenze, o è solo un’illusione?
Me lo sono chiesto seriamente in due post sul mio blog. Nel primo ho analizzato i costi e i benefici, nel secondo ho ideato una strategia. Appurato che, nel mio specifico caso, era importante coprire anche il fronte di Instagram, ho realizzato che utilizzarlo era letteralmente lavoro, e ho iniziato a trattare l’app come un ufficio. Vi invito a recuperare tutto il discorso, ma il succo è che ho disinstallato Instagram dal telefono che porto sempre con me e l’ho confinato su un vecchio smartphone scassato, senza SIM, connesso solo al wifi di casa. Così facendo, ho potuto definire dei momenti precisi nei quali avrei lavorato alla comunicazione su Meta, circoscrivendoli a un paio d’ore alla settimana. Risultato: non avere l’ufficio sempre in tasca mi ha reso felice e mi ha restituito tantissimo tempo prezioso che mi veniva rubato senza che me ne accorgessi. Una vittoria.
Poi c’è stato un imprevisto. Durante uno spostamento, ho dimenticato il telefonino-ufficio e non ho avuto modo di recuperarlo per un paio di mesi. Sono stato costretto a reinstallare Instagram sul mio smartphone principale e sono immediatamente ricaduto nei vecchi meccanismi, pur avendoli smontati ed essendo perfettamente conscio di quanto fossero nocivi.
Ho passato più tempo di quanto mi faccia piacere ammettere a scrollare reel e a perdermi nella nebbia della selezione algoritmica. Nelle mie giornate si è fatto strada un limbo di inutilità, nel quale sono rimasto incollato al divano, schiacciato da una forza invisibile, a consumare pillole di content che non mi lasciavano niente, se non l’amaro in bocca. Non sono affogato solo dentro Instagram, perché quella fame di vuoto mi ha fatto tornare altre cattive abitudini, come riaprire Reddit o refreshare compulsivamente le pagine dei quotidiani.
Mi sono sentito un tossico, costantemente a caccia di una dose di dopamina, pronto a barattare il significato per un fugaci brividi di novità. Perché leggere un libro, che mi lascerà qualcosa per sempre, quando posso annullarmi per mezz’ora guardando video da 15 secondi che dimenticherò nel giro di qualche minuto? Mi sono osservato da fuori, come la cavia di un esperimento, e mi sono sinceramente chiesto: “Come mai continuo a fare questa cosa che non mi rende felice? Come mai continuo a farla, anche se so che mi fa male?”
Davvero, come mai? Solitamente ho una buona forza di volontà, ma in questo contesto sembrava non funzionare. Perché sono così vulnerabile? Perché sento il bisogno di riempire ogni momento con del content, come se non fossi più in grado di restare solo con i miei pensieri? Mi sto anestetizzando? Alla fine, la metafora del tossico è tragicamente calzante, ma bisogna aggiungere un dettaglio: sono diventato un tossico di dopamina perché ho uno spacciatore in tasca.
Lo smartphone è diventato uno strumento così centrale che lo prendiamo in mano per una miriade di motivi, che sia per controllare l’ora o rispondere a una mail. E quando non lo facciamo, c’è una notifica che ci fa scattare sull’attenti. Ogni volta che guardiamo quello schermo, tra le icone colorate e invitanti c’è lo spacciatore, che sa esattamente cosa ci piace perché noi glielo abbiamo rivelato nel dettaglio, che ci sussurra: “Ehi, la vuoi una dose di dopamina? È gratis, giuro.”
Sento dire che siamo collettivamente diventatǝ più stupidǝ e che la nostra soglia dell’attenzione si è abbassata, come se l’egemonia dei reel fosse una conseguenza delle nostre mancanze. FROTTOLE. Il nostro attention span è vittima degli strumenti che usiamo e dei luoghi che frequentiamo, che sono strutturati esattamente come sostanze che creano dipendenza. Le app monetizzano il nostro tempo, perché usandole regaliamo dati e consumiamo pubblicità, quindi sono ottimizzate per catturarne più che possono. Lo spacciatore di dopamina esiste e la nostra società ha un problema di tossicodipendenza.
Nello stesso periodo, su un altro fronte, ho scoperto il vero potere del software libero. Lo uso da anni e tutte le piattaforme di Tele Kenobit sono basate su software libero e open source, inclusa la newsletter che state leggendo, ma recentemente, disgustato dalle politiche di Microsoft, ho fatto il grande salto. Ho installato GNU/Linux sui miei computer e mi sono liberato di tutti i software proprietari. Ve ne parlerò in altre sedi, perché è un viaggio bellissimo che mi piacerebbe condividere con voi, ma per il momento vi basti sapere che mi ha reso istantaneamente più leggero e felice. Sarà anche lapalissiano, ma usare strumenti che mettono al primo posto il rispetto della mia libertà mi ha fatto sentire più… libero. È la differenza tra l’avere un rapporto trasparente con un amico e l’avere a che fare con una persona che vuole manipolarti per il suo guadagno personale. Mi fa stare bene.
Il che mi porta all’illuminazione di questa vacanza. I software su smartphone che mi fanno stare male sono proprietari, opachi, progettati per nutrirsi del mio tempo. Cosa succederebbe se li rimpiazzassi con del software libero?
Ho una tesi: la libertà che mi darebbero mi permetterebbe di riprendere le redini del mio rapporto con quel rettangolo che mi porto in tasca, facendolo tornare uno strumento al mio servizio. Sono stufo di essere usato. Forse, libero dalle catene più evidenti, potrei individuare con più lucidità le cose di cui ho realmente bisogno, scartando quelle nocive e superflue. Voglio ritrovare la capacità di annoiarmi, di stare da solo con me stesso senza riempire ogni istante per paura del vuoto.
Ho un piano sperimentale per stravolgere il mio smartphone alla luce di tutte queste riflessioni. Lo metterò in atto questa settimana e ve lo racconterò nella prossima Settimana Sovversiva. Sono emozionato all’idea.
Come sempre, vi invito a considerare questa mail l’inizio di un dialogo e a rispondermi, se volete, con le vostre esperienze. Se queste riflessioni vi sono piaciute, magari, consigliate questa newsletter a chi volete voi.
Buona Settimana Sovversiva!
Kenobit