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La Settimana Sovversiva

Ciao! Oggi è un giorno molto speciale per me, perché il mio libro, Assalto alle Piattaforme, è finalmente uscito. Sono emozionato! Parla del rapporto tossico che abbiamo con le piattaforme commerciali, analizza i meccanismi che ci rubano il tempo, racconta il grande inganno della content creation e propone un percorso concreto per smettere di sostenere il capitalismo digitale e rivendicare una dimensione online che non inquini il mondo e le nostre vite. È frutto di due anni di sperimentazione (cominciati proprio qui, sulla Settimana Sovversiva), tecnologica e umana, e spiega nel modo più semplice possibile le alternative e le pratiche che possono liberarci. Ci ho messo il cuore. Se volete comprarne una copia cartacea, lo trovate qui, sul sito di Agenzia X. Nota: al momento è disponibile solo il libro, mentre l'ebook sarà disponibile dal 10 gennaio, in contemporanea all'arrivo nelle librerie del mondo reale.

Un libro battagliero, però, perde di significato se non è accessibile. Per questo, ho pensato di registrarne una versione audio gratuita, per chiunque non abbia modo di leggere, per qualsiasi motivo. Non ho il budget per ingaggiare speaker di mestiere, quindi l'ho letto io, con la mia voce. Non sarà professionale, ma è pieno di affetto. Uscirà in formato podcast, mano a mano che registro i capitoli, ovviamente non su Spotify e sulle piattaforme commerciali. Lo trovate sulla mia istanza Castopod, software che tra l'altro è ben raccontato nel libro. La prima puntata è già disponibile! L'accessibilità deve essere anche economica: se potete vi invito a sostenere il mio lavoro e quello di Agenzia X, ma se volete leggere il libro e in questo momento non ve lo potete permettere, scrivetemi. Vi aiuterò a "piratarlo". Il libro, del resto, è depositato con una licenza copyleft, libera, che vi permette di copiarlo, distribuirlo, prenderne dei pezzi, remixarlo. Il sapere vuole essere libero!

Vi lascio con il primo capitolo, intitolato "Abbiamo un problema". Ah, dimenticavo: questa settimana farò gli ultimi tre concerti del 2025, muovendomi verso sud. Domani, giovedì, sarò alla Casamatta di Gaeta. Venerdì sarò al Cineteatro Universal a Cosenza, mentre sabato sarò a Reggio Calabria all'Interzone. Buona lettura e buona Settimana Sovversiva. <3


Abbiamo un problema. Ogni aspetto delle nostre vite è stato colonizzato da aziende private che estraggono valore dalle nostre esistenze. Il feudalesimo digitale si nutre del nostro tempo e ironicamente siamo proprio noi a darglielo, senza nemmeno accorgercene, a volte addirittura con entusiasmo. Facendo scorrere sui nostri smartphone la cascata infinita di contenuti selezionati dagli algoritmi smettiamo di essere umani e diventiamo meri target pubblicitari, piccole miniere di dati che vanno ad alimentare lo stesso iperconsumismo che sta distruggendo il pianeta. Siamo complici dei nostri sfruttatori, anzi, peggio: lavoriamo gratis per loro. Il malessere è palpabile, ma fatichiamo a metterlo a fuoco. Siamo consapevoli dei danni cognitivi e sociali che ci stanno infliggendo questi meccanismi, ma sono così radicati nella normalità che non riusciamo nemmeno a metterli in dubbio. L'obiettivo di questo libro è smontarli, analizzarli e capire come possiamo scendere da questa giostra, o se non altro sabotarla.

Il problema che ho appena descritto è anche mio, tengo a specificarlo. Non sono qui per sgridarvi o puntare il dito, perché in questo tranello sono cascato in prima persona, con entrambi i piedi. Lo dico senza vergogna e questa trasparenza mi sembra l'unico punto di partenza accettabile per intraprendere un percorso di liberazione. Affrontando questi temi si tende a parlare solo di economia e tecnologia, dimenticando il lato umano che invece è cruciale per capire la situazione in cui ci troviamo. Per questo, prima di proporvi il mio percorso di disintossicazione e resistenza, desidero raccontarvi la storia di come mi sono trovato in questo pasticcio. Mi sarà utile come base per alcune riflessioni, ma anche per contestualizzare il disagio da cui sono scaturite.

Tutto cominciò con la voglia di condividere una passione. Intorno al 2008, con il mio socio Andrea Babich, iniziai a organizzare delle serate di retrogaming in un piccolo circolo Arci. Amavamo i vecchi videogiochi da bar e volevamo raccontarli al pubblico. Erano eventi gratuiti, senza scopo di lucro, organizzati per il puro piacere di farlo. L'idea funzionò e nel giro di poco tempo ci trovammo alle prese con un nutrito gruppo di persone che non voleva perdersi neanche un evento. Ci fu suggerito di creare una pagina su Facebook, "Insert Coin", dove annunciare le date e pubblicare le locandine.

Ai tempi i social network non facevano parte della mia vita. Avevo un account su Facebook, fatto controvoglia per assecondare non ricordo chi, ma lo usavo pochissimo perché non ne sentivo l'esigenza. La creazione di quella pagina cambiò tutto. In quel momento, Facebook era una macchina da comunicazione potentissima, perché tutto ciò che pubblicavamo su "Insert Coin" raggiungeva istantaneamente il nostro pubblico. Se la pagina aveva cinquemila fan, cinquemila persone leggevano le nostre parole e potevano ricondividerle sulle loro bacheche. Curare la pagina era un metodo estremamente efficiente per mantenere i contatti con la nostra comunità e raggiungere nuove persone interessate. Le serate crescevano e con esse il nostro numero di fan digitali, in un circolo virtuoso che sembrava mettere a frutto il vero potenziale di Internet, che nel frattempo si stava diffondendo. Se un tempo era una frontiera riservata a chi già masticava l'informatica, l'avvento dei primi iPhone e la diffusione delle connessioni a banda larga stava ampliando esponenzialmente l'utenza.

Così, quasi senza accorgermene, mi trovai a investire sempre più tempo su Facebook, non solo come amministratore di una pagina, ma anche come persona. La piattaforma mi dava uno strumento per coltivare un progetto ed era di fatto entrata nella mia quotidianità. Iniziai a curare il mio profilo e a condividere qualche pezzetto di vita privata, solleticato dalle attenzioni che ricevevo in cambio. Sembrava tutto così innocente! Poco tempo dopo, Facebook cambiò le regole del gioco. Usando come scusa la crescita dell'utenza e la mole di status che venivano pubblicati ogni giorno, smise di mostrare in ordine cronologico tutti i post delle persone e delle pagine seguite. In sostituzione, adottò la primissima versione di un feed algoritmico che selezionava in base a criteri opachi quali post promuovere e quali affossare. Fu una doccia fredda per chi, come me, aveva una pagina nella quale aveva investito tempo ed energie.

Facebook mi disse esplicitamente che il post che stavo per pubblicare avrebbe raggiunto organicamente solo una piccola percentuale dei fan della pagina. Per raggiungerli tutti, avrei dovuto spendere soldi per un post sponsorizzato; di fatto, Mark Zuckerberg mi stava chiedendo un riscatto per parlare con la comunità che si era creata intorno ai nostri eventi. Tutto il lavoro svolto per farla crescere, all'improvviso, non valeva più niente, anche perché organizzando eventi no profit non avevamo il budget per pagare l'estorsione, anche se avessimo voluto farlo. Avevamo costruito a casa d'altri. Avrei potuto riflettere sui rischi di investire il mio tempo in una piattaforma privata gestita da un miliardario dall'altra parte del mondo, ma in quel momento il mio problema più impellente era: "Come faccio a comunicare le prossime serate?"

In un primo momento provai inutilmente a ingannare il sistema, ma la deriva algoritmica era inarrestabile. Facebook, ormai quotato in borsa e con investitori ansiosi di recuperare i generosi capitali elargiti in fase di startup, aveva capito che la vera risorsa monetizzabile era il nostro tempo. Nacque così il cosiddetto "walled garden", il giardino recintato, perfetta metafora della tendenza accentratrice della piattaforma. L'algoritmo venne ritoccato per penalizzare qualsiasi post contenesse un link a un sito esterno, una mossa che tagliò le gambe ai giornali e a chiunque avesse un progetto da promuovere, come me. Dal recinto non si esce, pena l'oblio algoritmico.

Nel frattempo, dopo il grande successo di YouTube, stavano nascendo piattaforme dedicate allo streaming, ossia alla trasmissione di video in diretta. Io e Andrea eravamo in cerca di un nuovo modo per restare in contatto con il pubblico delle serate, quindi creammo un canale su Hitbox.tv, concorrente ormai estinto del più noto Twitch.tv. Iniziammo a trasmettere delle sessioni di gioco da casa mia, una volta ogni due settimane, con l'esplicito scopo di pubblicizzare le serate. L'esperienza fu trasformativa, nel bene e nel male. Il nostro desiderio era ancora una volta condividere la nostra passione e divulgare una cultura che ritenevamo preziosa, quindi fummo travolti dal potenziale dello streaming. Potevamo trasmettere da casa, senza le fatiche organizzative di un evento dal vivo, raggiungendo anche chi viveva a centinaia di chilometri di distanza. Il nostro pubblico, tramite la chat, poteva comunicare direttamente con noi, ma anche chiacchierare e tessere amicizie durante i nostri show. Era una novità emozionante, che al netto di tutte le critiche che sto per porre ci ha fatto incontrare persone poi diventate amiche e preziose alleate. Il problema di Internet non è certo la sua possibilità di connetterci con anime affini in coordinate geografiche differenti.

Qualche tempo dopo Hitbox.tv chiuse i battenti e ci lanciammo su Twitch.tv, la piattaforma che di lì a breve sarebbe diventata sinonimo di streaming. Decidemmo di concentrare lì le nostre energie, raddoppiando la frequenza delle nostre trasmissioni. Poi si unirono altri amici al progetto, aggiungendo un'ulteriore live settimanale, e io decisi di inaugurare una mia diretta mattutina, dal lunedì al venerdì. In buona sostanza, passammo da due a più di dieci ore di streaming a settimana. Le serate dal vivo, quelle nel mondo reale, si diradarono fino a sparire.

Fino a quel momento non avevo mai fatto caso ai numeri; il risultato che cercavo non si misurava in statistiche, ma in umanità. Se c'era gente a seguire le dirette ero felice a prescindere, perché il mio scopo era condividere la mia passione. Il punto non era diventare famoso, quindi poco cambiava se c'erano dieci, cento o mille spettatori. Quel numero, in bella vista nell'interfaccia delle dirette, non lo guardavo mai. Per Twitch, però, quel numero era tutto, perché più spettatori significano più bulbi oculari che consumano le pubblicità tra una trasmissione e l'altra. Il business era ed è nella quantità. Il nostro canale funzionava bene, quindi fummo sedotti dalle dinamiche gamificate della piattaforma, che usava le stesse leve del game design (come i punti e i traguardi) per incitare la forza lavoro non pagata (noi) a produrre più contenuti. Iniziai a guardare ossessivamente il numero degli spettatori, esultando quando cresceva e intristendomi se smetteva di farlo. L'obiettivo era ottenere la partnership: chi streammava più di un tot di ore mensili con una media di spettatori contemporanei superiore a 75 poteva di fatto "entrare in affari" con Twitch e sbloccare la possibilità di monetizzare le dirette, ottenendo parte dei ricavi pubblicitari e accesso al sistema degli abbonamenti.

Quel traguardo mi parve la cosa più importante del mondo. Twitch stava crescendo esponenzialmente e noi eravamo nel posto giusto, tra l'altro con un progetto che ci rendeva felici. Forse potevamo trasformare il nostro hobby in un lavoro! Scrivere queste parole, oggi, mi fa accapponare la pelle. Il detto "Trovati un lavoro che ami e non lavorerai un giorno in vita tua" è una delle più infingarde menzogne del capitalismo. In quel momento era difficile rendersene conto, ma avevamo portato la nostra passione in un contesto lavorativo, strutturato per aumentare il tempo che gli dedicavamo, modellato sulla logica del profitto invece che su quella della libertà creativa. Iniziai a seguire religiosamente le best practice per fare crescere il nostro canale: il mantra degli streamer di spicco e dei blog ufficiali di Twitch era trasmettere con estrema regolarità, agli stessi orari, per fidelizzare il pubblico. La costanza, anche nei momenti di fatica o di malattia, era fondamentale, perché era l'unico modo per scongiurare che il nostro pubblico approdasse su altri lidi. In quell'enorme arena digitale eravamo in competizione con i nostri simili, come nel più tossico degli uffici. Gli stream settimanali, nati come scusa per passare del tempo con i miei amici e dedicarmi alle cose che amo, si erano trasformati in un impegno.

L'altra cosa da fare per emergere era curare la propria presenza sui social, creando un seguito anche su Facebook, Instagram e Twitter1. Iniziai a condividere sempre più aspetti della mia vita, anche quelli non legati ai videogiochi. Il prodotto ero io. La performance doveva essere costante. Iniziai a pubblicare più post, fotografando anche momenti privati, come le cene, i viaggi, le feste. Come Twitch, anche queste piattaforme social si reggevano sul business dei numeri e della pubblicità, e avevano a loro volta meccanismi gamificati per spingermi a produrre di più. Il confine tra mondo reale e digitale iniziò a sfumarsi e il mio smartphone usciva sempre più spesso dalle mie tasche per interrompere la mia vita. All'improvviso, rispondere a un commento o pubblicare la foto di un gelato era un imperativo categorico. Io, che fino a pochi anni prima avevo snobbato Facebook, ero diventato la caricatura degli influencer che vivono attraverso lo schermo di un telefono.

Visto che il canale cresceva, e quindi sulla carta stavamo "vincendo", non ci vedevo niente di male. Nel mio ingenuo tecnottimismo, mi sembrava una nuova e inevitabile normalità, scaturita dalla rivoluzione degli smartphone. Il mondo funzionava così e io ero troppo impegnato a inseguire un'idea distorta di successo per metterlo in dubbio. La tanto agognata partnership arrivò e il nostro canale si trovò sulla cresta dell'onda, con un pubblico sempre più numeroso su una piattaforma che sembrava destinata a crescere all'infinito. I guadagni della partnership, però, erano risibili. Il revenue sharing della pubblicità ci pagava in spiccioli e il 50% dei fondi degli abbonamenti finiva nelle casse di Twitch, che nel frattempo era stato acquistato da Amazon. Creavamo più di 40 ore mensili di trasmissioni originali, ma le entrate non bastavano neanche a pagare mezzo stipendio. Come se non bastasse, noi eravamo in cinque. Dividendo il malloppo e calcolando le tasse, a fronte di tutto quel lavoro ricevevamo poco più che una mancia.

Il modo per fare soldi c'era: tampinare il nostro pubblico affinché sottoscrivesse più abbonamenti, aumentare la pubblicità nelle nostre trasmissioni e portare contenuti sponsorizzati, trasformandosi di fatto in ingranaggi del consumismo. "Compra questa cianfrusaglia usando il codice KENOBISBOCH15 per avere 15 euro di sconto sul tuo primo acquisto!" Sono molto felice di non aver mai pronunciato questa frase, ma Twitch funzionava così, per chi voleva "trasformare la sua passione in un lavoro". Il prestigio della partnership ci aprì un sacco di porte che, per fortuna, decidemmo di non varcare. Erano nati i cosiddetti "network", aziende di management che gestivano gli streamer di successo, procurando ingaggi pubblicitari con i brand e adottando strategie aggressive per aumentare la loro popolarità e, di conseguenza, la possibilità di monetizzarli. Ricevemmo delle ottime offerte da alcuni dei network più popolari, ma la nostra coscienza, dopo un paio d'anni di letargo, iniziava a risvegliarsi. Dire di sì avrebbe significato cedere le redini del nostro canale a realtà motivate esclusivamente da scopi commerciali, ma soprattutto associarci a personaggi lontanissimi dai nostri ideali. Ai tempi, come ora, Twitch era pieno di streamer che coltivavano comunità sessiste e sfruttavano in maniera irresponsabile la loro notorietà. Di quella cricca, così lontana dalle cose che ci stavano a cuore, non volevamo fare parte. Rifiutammo quelle prospettive di facile crescita e decidemmo di continuare per la nostra strada, accantonando la possibilità di trasformare il nostro canale in un business in grado di mantenerci. Fu il primo sussulto di consapevolezza. Dopo anni di sospensione del giudizio, stavamo iniziando a osservare con occhio critico il nostro rapporto con le piattaforme.

In particolare, feci caso a come lo spazio della mia vita colonizzato da Twitch fosse andato a scapito di altre cose che amavo fare. Prima di cominciare con lo streaming scrivevo moltissima musica elettronica su Game Boy, che ancora oggi suono in giro come Kenobit. In quel periodo, però, non riuscivo più a scrivere niente, se non con grande fatica. In un primo momento pensai che fosse colpa mia e che semplicemente l'ispirazione si fosse spenta, ma poi feci caso alla quantità di tempo che veniva divorata dalla cura del canale. Le trasmissioni, ormai quotidiane, richiedevano preparazione ed energie mentali, e soprattutto andavano promosse sui social, in una dimensione digitale dove era sempre più difficile farlo. Come se non bastasse, non potevo fermarmi, perché il demonietto del content esigeva costanza e aveva già da tempo iniziato a erodere le mie vacanze e il concetto stesso di riposo. Fare lo streamer era un lavoro a tempo pieno, senza ferie, senza malattia, senza certezze. Ero stanco. La mia creatività, che solitamente emergeva nei momenti di ozio e libertà, non trovava aria da respirare.

Notai anche come la necessità di produrre senza soluzione di continuità avesse cambiato la portata delle cose che creavamo. Fino a qualche anno prima io e Andrea potevamo trovarci senza scadenze e fare ricerca, scavando come archeologi nella storia dei videogiochi e della loro musica. Prima di Hitbox e Twitch avevamo un piccolo podcast senza pretese, che richiedeva quasi un mese per una singola puntata, e che ci ricompensava con nuovi saperi e consapevolezze. Sentii la mancanza di quel modo così poco produttivo di dedicarmi alle mie passioni. Su Twitch, dove schiocca la frusta del content, eravamo costretti a fare serate preparabili in poche ore, con un lavoro di ricerca minimo, se non assente. Per quanto facessimo cose di cui andavo fiero, anche in quel contesto, non potevo fare a meno di notare come il rapporto con la piattaforma avesse appiattito il nostro output. Mi sentii disinnescato.

Il punto di rottura arrivò con il COVID 19. Con la reclusione forzata dei lockdown e la conseguente epidemia di solitudine, lo streaming su Twitch esplose in popolarità. Permetteva non solo di vedere video di intrattenimento, ma anche di parlare in tempo reale con chi li creava e con gli altri spettatori, offrendo socialità in un momento di prigionia domestica collettiva. La piattaforma bucò il velo del mainstream e iniziò ad attrarre calciatori, cantanti e VIP assortiti, che si portarono dietro un pubblico generalista infinitamente più ampio di quello a cui eravamo abituati. Tutti i canali partner, incluso il nostro, iniziarono a crescere esponenzialmente. Tecnicamente eravamo nel posto giusto al momento giusto. Avevamo sempre più spettatori, più numeri, più statistiche potenzialmente monetizzabili. Mai una "vittoria" fu più amara.

Il COVID, amplificando le ingiustizie già insite nella nostra società, mi mostrò il lato più mostruoso della piattaforma che supportavo quotidianamente con il mio lavoro. Erano giorni pesanti, in cui Milano era una delle città più colpite del mondo; c'erano migliaia di nuovi casi al giorno, gli ospedali erano sovraccarichi e persino gli scaffali dei supermercati si stavano svuotando. La gente barricata in casa aveva il terrore del contagio, ma anche il lusso di isolarsi con un tetto sopra la testa. Le strade erano deserte, eccezion fatta per i rider di servizi come Just Eat, Glovo e Uber Eats, costretti dalla necessità non solo a continuare a lavorare, ma a farlo con ritmi sempre più serrati, tra l'altro in un ambiente pericoloso, dove la loro salute veniva messa in pericolo a ogni consegna. Non avevo mai visto una rappresentazione più chiara della disuguaglianza della società. Anche le piattaforme della food delivery erano nella posizione ideale per trarre profitto dalla pandemia: la gente chiusa in casa creava un'occasione d'oro per affermare una nuova consuetudine di consumo. Visto che Twitch era il punto di ritrovo più popolare del momento, i colossi del food delivery investirono ingenti somme nella pubblicità in streaming, stringendo accordi con tantissimi canali partner, ai quali veniva chiesto, in cambio di soldi e laute commissioni, di popolarizzare e normalizzare le app con cui ordinare cibo. L'offerta arrivò anche a noi, e fu proprio quella a rompere definitivamente l'illusione.

Rifiutammo senza pensarci, disgustati dall'idea di diventare cartelloni pubblicitari per l'ennesimo business basato sullo sfruttamento. La luna di miele era finita. Da quel momento non riuscii più a vedere la piattaforma con gli stessi occhi di prima, perché tutti i suoi aspetti mi sembravano improvvisamente indifendibili. Fu come riprendersi da una sbornia durata anni e aprire finalmente gli occhi su problemi etici gravissimi. La pubblicità che veniva visualizzata durante i miei stream, sulla quale non avevo alcun controllo, andava ad alimentare il consumismo che razionalmente volevo contrastare, e i soldi degli abbonamenti, donati con affetto dal nostro pubblico, arricchivano direttamente Amazon, forse la realtà più rappresentativa di ciò a cui i miei ideali si oppongono. Stavo lavorando per il nemico, per giunta quasi gratis, in cambio di una piccola fama di cartapesta. A farmi infuriare fu anche lo spreco di un'occasione: una tecnologia come quella dello streaming avrebbe davvero potuto fare grandi cose, in un momento di isolamento sociale, ma gli interessi privati la usarono per spremerle le masse ed estrarne valore, invece che per elevarle. Fu a dir poco avvilente, anche perché quei problemi, ora così evidenti, erano sempre stati presenti. Mi avevano turlupinato. Da quel momento di smarrimento sono nate la ricerca e la sperimentazione alla base di questo di questo libro. Guardandomi intorno, ho notato come il problema non fosse solo mio e di chi aveva intrapreso la carriera da content creator, ma di chiunque, per un motivo o per l'altro, aveva lasciato entrare nella sua vita le grandi piattaforme dei social media. Il meccanismo è sempre lo stesso, che tu sia un aspirante YouTuber, un genitore in una chat di gruppo di WhatsApp, un appassionato di gatti che guarda reel su Instagram, o anche solo una persona che usa Facebook per restare in contatto con un gruppo unito da un interesse specifico. Il gioco è sempre lo stesso: visto che il profitto delle piattaforme è direttamente proporzionale al tempo che gli dedichiamo, i loro meccanismi sono studiati scientificamente per aumentarlo il più possibile. Produciamo valore quando creiamo contenuti, ma anche quando li consumiamo. Anche chi decide di condividere qualche pezzetto della sua vita per il gusto di farlo, senza inseguire la fama o il profitto, subisce la stessa manipolazione dei content creator di professione. I like, i follow e i commenti fanno leva sui nostri recettori dopaminergici, così come tutto il sistema di somministrazione di video, reel e TikTok. Ogni swipe verso l'alto ci regala un nuovo video, un'altra microdose di neurotrasmettitori, lavorando sugli stessi meccanismi delle tossicodipendenze.

Tra l'altro, ed è la cosa più grave, le piattaforme social hanno permeato così tanto le nostre vite da essere diventate il principale canale con il quale ci informiamo sul mondo. Il mondo fittizio che la selezione algoritmica ci presenta come "verità" diventa la base di partenza dei nostri ragionamenti e ci impedisce di ragionare lucidamente sulle strutture di potere in cui siamo inseriti. Ci lasciamo guidare da un'allucinazione, come osserva con grande lucidità Ippolita:

Nella letteratura dickiana, infatti, il simulacro rappresenta tanto l'androide (simulacro dell'essere umano per lo scrittore californiano) quanto l'intera realtà condivisa. Ma cosa c'entra questo con la nostra esperienza online? C'entra, perché tra filter bubble, fake news, meme, post-verità e procedure gamificate per molti diventa sempre più difficile separare ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. La realtà dall'allucinazione, appunto. A maggior ragione in un tempo come quello odierno, nel quale la vita online e quella offline tendono a compenetrarsi nella dimensione chiamata, significativamente, on-life. [Ippolita, Hacking del sé, 2024]

Realizzai che il problema che avevo vissuto sulla mia pelle con tanta intensità era diffuso capillarmente nella nostra società, con mille volti diversi. Siamo materie prime. Siamo cose. E come potremo innescare del cambiamento se i nostri sfruttatori digitali si sono impossessati persino della nostra immaginazione? La fortezza delle piattaforme mi è parsa il primo obiettivo strategico da riconquistare, se vogliamo aver voce in capitolo sulla direzione che prenderà il futuro. Sì, ma come? Provando ad analizzare il problema, non ho trovato altro che domande, in un primo momento.

Davvero non c'è modo di condividere le nostre passioni senza regalarle al capitalismo? Le grandi piattaforme dei social media, da Instagram a YouTube, sono veramente obbligatorie per chiunque abbia un progetto da comunicare? È possibile sfruttarle senza farsi sfruttare? Quanti dei mali che ci vengono spacciati come necessari lo sono realmente? È possibile creare consapevolezza collettiva sui meccanismi predatori delle app che abbiamo lasciato entrare nelle nostre vite? Posso ritrovare il piacere della mia creatività senza rinunciare alla possibilità di trovare un pubblico? C'è modo di mettere le tecnologie attuali al servizio del popolo, invece che degli interessi privati? Possiamo brandire il loro potenziale sovversivo? Possiamo rimettere in discussione ciò che diamo ai vassalli del feudalesimo digitale, e soprattutto ciò che riceviamo in cambio? Domande, domande, domande. In cerca di risposte, ho iniziato a tramare il mio assalto alle piattaforme. Ho avviato un nuovo progetto, Tele Kenobit, con l'obiettivo di fare le stesse cose di sempre, ma in un ambiente autogestito, senza pubblicità, basato sul software libero. Ho deciso di esplorare le alternative tecnologiche e sociali, provandole su me stesso, per verificarne l'efficacia e l'effettivo potenziale, con l'obiettivo ultimo di documentarle e diffonderle, perché questa battaglia, come tutte, non potrà essere che collettiva. All'inizio dell'avventura pubblicai un post su un neonato blog indipendente, intenzionalmente fuori da Instagram, Facebook, X e TikTok.

Ciao! Mi chiamo Kenobit e sono stanco del content. E forse anche il content è stanco, a ben pensarci. Sono dieci anni che faccio il "content creator", tra Twitch, YouTube e un altro paio di piattaforme ormai defunte. Insieme ai miei soci ho prodotto migliaia di ore di trasmissioni in diretta sui temi che mi appassionano: i videogiochi, la musica, la tecnologia, la politica. Questo percorso mi ha dato grandi soddisfazioni, inutile negarlo. Mi ha fatto conoscere persone incredibili e ha gettato le basi di una comunità affiatata e solidale, che spesso, negli ultimi anni, mi ha fatto sentire meno solo. A scanso di equivoci e al netto delle critiche che sto per muovere, rifarei tutto. Detto questo, la vita da streamer si è rivelata anche una catena. Le piattaforme commerciali che popoliamo, da Instagram a Twitch, si nutrono di "content", ossia del contenuto che allestisce la vetrina, attira lo sguardo dei passanti e permette di vendere spazi pubblicitari. Per questo deve essere costantemente rinnovato, aggiornato, svecchiato. Chi vuole rimanere rilevante deve produrlo con costanza, possibilmente a intervalli regolari, cavalcando le onde dell'algoritmo per rimanere nelle sue grazie. Il content è un severo maestro. Non ci sono vacanze, malattie, festività. La competizione è spietata, perché la guerra per le briciole di visibilità ci mette le une contro gli altri. Anche chi vince, sotto sotto, perde. Ed è così che ciò che nasceva come svago diventa una fonte di ansia e stress. La produzione costante è logorante, anche perché l'accelerazione delle piattaforme fa sì che i ritmi siano sempre più intensi e serrati. So di non essere solo, se dico di essere stanco. Questo sistema di produzione non è sostenibile, né per noi, né per la nostra creatività. Vedo una sproporzione immane tra ciò che diamo alle piattaforme e ciò che riceviamo in cambio. Sento che la frusta dell'iperproduttività sta limitando i nostri orizzonti, spingendoci a produrre contenuti effimeri invece che opere pensate per durare. Penso che sia il momento di rimettere tutto in discussione e che farlo sia in primis una necessità politica. Le piattaforme commerciali sono contenitori e come tali plasmano i nostri contenuti. Il loro scopo è il profitto e questo le renderà sempre un terreno poco fertile, se non direttamente ostile, per qualsiasi idea osi mettere in dubbio lo status quo. Dobbiamo davvero svendere le nostre passioni a colossi tossici come Amazon, Meta, Google e Microsoft? Siamo condannate a costruire i nostri progetti in spazi presi in prestito, che potrebbero venirci tolti da un giorno all'altro, magari perché abbiamo affrontato un tema "divisivo"? Cosa succederebbe se smettessimo di regalare a delle aziende private la bellezza che creiamo e iniziassimo a metterla al servizio della collettività? Sono convinto che ci stiano prendendo in giro. Ho un piano, un'idea sovversiva. Se ti piacerà, potrai farla tua. RIPRENDIAMOCI TUTTO.

Riprendiamoci tutto, dunque. Cominciamo.

La Settimana Sovversiva
illustrazioni di Gianluca Folì