Come forse sapete, ho pubblicato un piccolo libro che parla del nostro rapporto con gli smartphone e di come possiamo rimetterlo in discussione per riprenderci le nostre vite. Se volete potete leggerlo gratis, in PDF o in EPUB, oppure comprarne una copia fisica. Oggi non vi parlerò del libro in sé, ma della modalità con cui l’ho fatto, l’autoproduzione.
La prima volta che ho sentito parlare di autoproduzione ero un cucciolo di batterista, poco più che quattordicenne, con una band punk e tanta voglia di suonare. Erano tempi in cui se ti piaceva qualcosa te la dovevi andare a cercare nel mondo reale, quindi prendevo il 12 sotto casa, scendevo in Duomo e andavo da New Zabriskie Point, un piccolo negozio di dischi in una traversa di via Torino. Lì c’era tutto ciò che desideravo: un mondo di stimoli, musica e ribellione. Il posto perfetto, per un neoadolescente confuso in cerca della sua identità.
C’erano tutti i CD delle band americane e inglesi, ma erano costosi e il più delle volte mi limitavo ad ascoltarli in negozio e a fissarmi nella memoria quanti più nomi e immagini potessi. Ma Zabriskie non era soltanto un’attività commerciale. Dietro al bancone c’era Stiv Valli, fondatore e curatore di Teste Vuote Ossa Rotte, una fanzine punk seminale, apprezzatissima anche all’estero, che ha contribuito a plasmare la controcultura nello stivale. Peccato che ai tempi io non avessi idea di chi fosse, anche perché quella scena hardcore fatta di squat, sudore e adrenalina io potevo solo sognarla e immaginarla dalle foto e dai flyer in giro per le strade. Di lì a poco avrei iniziato a frequentarla anch’io, ma agli inizi, banalmente… non avevo il permesso di uscire, andare in posti balordi e fare tardi.
Accanto al bancone di Stiv c’era una piccola selezione di musicassette, tutte rigorosamente con copertina fotocopiata. “Cosa sono?” chiesi la prima volta.
“Demo delle band. Autoproduzioni. Prenditi questa che è molto bella.”
Tornai a casa con la demo degli Shandon, tutto felice perché avevo speso poco e potevo subito ascoltarla con il walkman. Da quella volta, la prima cosa che facevo da Zabriskie era cercare nuove demo da scoprire. Non avevo ancora inquadrato il vero significato di “autoproduzione”. A me interessava la musica, e in alcune di quelle cassette c’era roba fantastica. Nella mia testa, non c’era molta differenza tra i Bad Religion, band di fama planetaria, e gli Spermatozoi Sopravvissuti, un gruppo che di lì a poco sarebbe sparito nell’oblio. La musica era musica. Punto.
Poi venne il momento della nostra, di musica. La mia prima band si chiamava Asphalt Surfers e facevamo deliziosamente schifo. Registrammo otto pezzi in presa diretta, tutti in una serata, in uno studio scalcagnato fuori Milano. Fu un periodo di passaggio tra l’infanzia e la vita adulta, nel quale facevamo cose da “grandi”, come registrare un disco punk, ma poi ci facevamo venire a prendere in macchina da mio padre (un santo). La copertina la disegnò un mio amico di scuola, Stefano Polli, che ora è uno dei visual artist e creative director più quotati del paese.
Sognavamo di farcela, qualsiasi cosa volesse dire. Il desiderio era molto semplice: vivere facendo ciò che ci rendeva felici. La nostra cassettina iniziò a girare nelle “distro”, distribuzioni artigianali e sotterranee che allestivano banchetti in giro per i concerti, grazie alla buona volontà delle persone che se ne occupavano. Nelle distro c’erano CD, demo, fanzine e pure qualche 12 pollici. Le band si scambiavano dischi con le altre, per poi metterli nelle rispettive distro, con l’unico obiettivo di diffondere la musica che amavano. Internet esisteva già, ma non era ancora arrivato al grande pubblico ed era troppo lento per condividere file musicali. Le distro erano quindi l’unico modo per farsi ascoltare, a meno di non riuscire nell’impresa improba di farsi notare da una casa discografica e uscire nei circuiti ufficiali dei negozi di dischi e delle radio.
Oggi non c’è nulla che mi piaccia di più delle distro, che esistono ancora, perché sono un monumento alla cooperazione. In un mondo che presta poca attenzione, dove la visibilità è un bene scarso tenuto in ostaggio dai social commerciali, le distro sono un fronte comune, un’alleanza dal basso per portare in giro idee e opere. Ai tempi, invece, il mondo dell’autoproduzione e del DIY mi sembrava la serie B. Lo amavo, ma mi pareva una versione inferiore a quello ufficiale, dove firmi un contratto con un’etichetta e inizi a muoverti nei circuiti professionali. Quello voleva dire “farcela veramente”, il resto era solo un gioco dilettantistico. Quanto mi sbagliavo!
Oggi so che il mondo professionale della musica è fatto di miserie e porte in faccia, e che la gioia di fare le cose perché le ami batte duecento a zero avere “una label alle spalle” e un ufficio stampa. Ho visto tante persone avvelenare la loro passione nel tentativo di trasformarla in un lavoro e di piegarla alle logiche competitive del capitalismo.
Proprio per questo penso che l’autoproduzione non sia solo una modalità, ma anche una scelta ideologica. Dopo aver scritto il libro, avrei potuto cercare una piccola casa editrice e farmelo pubblicare, senza dovermi fare altri sbattimenti. Ma le case editrici, come quelle discografiche, sono aziende che devono ragionare sui guadagni, anche quando sono mosse da valori che condivido.
Autoprodurre il libro mi ha permesso di svincolarmi dalle logiche del guadagno e della competizione. Guadagnare qualche soldo non mi fa schifo, certo, ma la priorità di questo progetto è fare girare un’idea in cui credo, con la speranza che possa fare del bene a chi la legge e inneschi qualche pixel di cambiamento. Non avendo un capo, ho potuto fare scelte insensate dal punto di vista commerciale, come depositare l’opera con una licenza copyleft (che permette a chiunque di copiarla e volendo anche di rivenderla), regalare la versione digitale e vendere le copie fisiche alla metà di quanto costa un libro normalmente. E non solo! Ho preparato personalmente ogni pacco e scritto a mano l’indirizzo di ogni persona che ha deciso di supportare il mio lavoro. Avrei potuto stampare le etichette, ma quanto è più bello ricevere un pacco preparato da una persona vera, invece che da una catena di montaggio in un magazzino?
Ho sentito una connessione umana con ogni pacco che ho preparato. Le regole del commercio nell’era del feudalesimo digitale ci insegnano che dobbiamo desiderare tanti follower, per poi monetizzarli. Io non voglio follower, voglio alleatx, amicx, complici.
Viviamo in tempi disumani. Rivendicare la nostra umanità, o magari riscoprirla, è un atto sovversivo.
Buona Settimana Sovversiva!
Kenobit
Questa sera c'è la terza puntata di Jonathan Dimensione AESTHETICA, un approfondimento sulla storia dell’arte diretto dal Dottor Pira e da Michele Sala. Qui potete trovare i video dell’anno scorso, se siete impazienti. Lo trovate su Tele Kenobit alle 21:30.
Su Tele Kenobit trovate anche la mia trasmissione mattutina, KenoMATTINA, dal lunedì al venerdì, dalle 8:30 in avanti!
Ecco le mie prossime date!
15 febbraio - Circolo Ribalta, Vignola (MO) Porterò dalle amiche del collettivo Micelio la mia combo di chiacchiere, fanzine e musica a 8 bit.
21 febbraio - Circolino della Malpensata, Bergamo Combo! Prima presentazione del libro, poi concerto!