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La Settimana Sovversiva

Ciao! Nelle ultime settimane non mi avete sentito perché sono stato risucchiato dall’organizzazione (e dallo svolgimento) di Zona Warpa, il nostro festival del videogioco ribelle e itinerante. Si è appena conclusa l’edizione di Roma, al Forte Prenestino, un’esperienza bellissima, ma più intensa del previsto a causa di un incendio nel parco fuori dallo spazio, che minacciava di scavalcare le mura e ci ha costretto ad annullare un’intera giornata di programmazione. È stato molto difficile, ma ce l’abbiamo fatta. Un giorno vi racconterò la storia completa, ma nel frattempo voglio ringraziare il collettivo del Forte Prenestino, che dimostra come con l’autogestione si possa superare qualsiasi sfida: anche le fiamme. Tra gli interventi saltati causa apocalisse ce n’era anche uno mio, intitolato “Degooglizzazione: come e perché dire di no a Google”, per il quale avevo addirittura preparato delle slide. In questi giorni di decompressione post-festival lo registrerò e lo pubblicherò su Peertube, ma ho pensato di affrontarne una sfaccettatura qui, tra le righe della Settimana Sovversiva. Buona lettura!

Stiamo perdendo? Stiamo vincendo? Cosa vuol dire vincere o perdere? E se il problema fosse che l’egemonia dei social ha deformato il nostro concetto di vittoria, disinnescandoci?

Le piattaforme come Instagram e TikTok ci propongono un’idea di successo fatta di assoluti, dove ogni influencer diventa l’incarnazione di uno stile di vita, da praticare con abnegazione monastica per lo spettacolo algoritmico. La moderazione e la lentezza non tirano. Devi mangiare 200 grammi di proteine al giorno. Devi farti un bagno ghiacciato tutte le mattine. Devi entrare nel grindset, strapazzarti, sacrificarti, esagerare, mettere in secondo piano la tua vita reale e sovrascriverla con la tua immagine digitale. Il successo smette di essere un percorso di crescita personale, che è la ricompensa di sé stessa, e si trasforma in un’insulsa medaglia da sfoggiare. Diventa una competizione che obbedisce alle fredde regole dei numeri e influenza i nostri ragionamenti, scombinandoci le priorità. Perché facciamo le cose? Per chi le facciamo?

L’ubriacatura social ci ha convinto che vale la pena di fare solo le cose in cui possiamo eccellere, quelle che possiamo monetizzare. Se non puoi vendere i tuoi disegni, posa la matita. Se non puoi riempire un palazzetto di fan urlanti, appendi al chiodo quella chitarra, o ancora meglio non iniziare nemmeno a suonare, perché ormai hai un’età e non avrai mai tempo di diventare abbastanza bravo. Questa mentalità nuoce gravemente al nostro spirito e ci priva della gioia di fare le cose perché ci va di farle, a prescindere dalla presenza di un pubblico pagante. Se applichiamo lo stesso ragionamento alla lotta e all’attivismo, ci spinge verso una pericolosa ignavia.

“Se non posso cambiare il mondo con un mio gesto, allora tanto vale che non faccia nulla.” O tutto o niente, e visto che il tutto non è quasi mai un’opzione, quando si parla di mettere in dubbio lo status quo, ci ritroviamo a guardare passivamente mentre il mondo va a fuoco. La degooglizzazione ci offre un esempio perfetto di questo concetto, nonché un’occasione per hackerare il nostro sé e passare dall’immobilità all’azione.

Degooglizzarsi significa smettere di usare i servizi di Google, arrivando a boicottare in toto l’azienda. Ci sono tantissimi motivi per farlo, ma quello più attuale è il supporto che offre a Israele durante il genocidio in Palestina. Il settore tech è uno dei più redditizi e strategici per il regime sionista e Google ne è uno dei principali sostenitori, a livello economico e tecnologico. Ha aperto degli uffici a Tel Aviv nel 2013, investe miliardi nelle startup israeliane e mantiene stretti legami professionali con il ramo informatico delle forze di occupazione. Nel 2021 ha firmato un contratto dal nome in codice “Project Nimbus”, per il quale insieme ad Amazon si impegna a offrire a Israele servizi di cloud computing e risorse IA avanzate, le stesse che con tutta probabilità hanno alimentato il progetto Lavender, il sistema con il quale l’esercito ha scelto i bersagli all’inizio dell’invasione (che è un’IA addestrata anche con i metadati che regaliamo a WhatsApp, ma è un’altra storia). Una fuga di informazioni ci ha rivelato che Google sa perfettamente che il suo apporto tecnologico potrebbe tradursi in crimini contro i civili, ma che ha deciso di fregarsene in nome del profitto. Insomma, se vi sta a cuore la causa palestinese e volete smettere di sostenere l’oppressione con i vostri acquisti e le vostre vite, boicottare Google è importante.

Ma come si fa? Google si è insinuato in ogni pertugio delle nostre vite e liberarsi dal suo ecosistema sembra impossibile. Lo dico subito: liberarsene del tutto in un colpo solo è impossibile, specie se avete una vita nella quale dovete lavorare e interagire con delle persone. Google lo sa benissimo ed è proprio su questo che punta. La distanza del traguardo ci fa passare la voglia di intraprendere il cammino. Il capitalismo digitale vive solo di risultati e ci ha rubato la gioia delle piccole conquiste. Degooglizzarsi, oltre che un atto politico, può essere un modo per spezzare questo incantesimo.

Mollare Google significa apportare tanti cambiamenti nella propria vita. Alcuni sono minuscoli, come cambiare motore di ricerca, altri richiedono più impegno, come sostituire Gmail o abbandonare Maps. La mole di cose da fare è scoraggiante, ma noi dobbiamo cambiare forma mentis. Gli ultimi dieci anni ci hanno insegnato che siamo un fallimento se non raggiungiamo all’istante l’obiettivo. La verità è che ogni piccola riconquista è una vittoria da celebrare.

Non amo le metafore belliche, ma siamo in guerra, anche se non ce ne accorgiamo. Google ha conquistato le nostre vite e ci ha costruito un muro intorno. Ogni servizio che gli strappiamo, per quanto piccolo, toglie risorse al nostro nemico e ci consente di riprenderci un po’ di territorio, e non solo: ci permette di piazzare una bandiera che inviti altre persone a combattere al nostro fianco. Il fatto che non sia possibile riconquistare tutto il castello con una singola battaglia non vuol dire che non valga la pena combattere. Possiamo scambiare uno stato di sconfitta permanente con tante piccole gioie. Ogni pixel di libertà digitale che ci riprendiamo è un trionfo, anche se la via è ancora lunga.

Possiamo ricominciare a muoverci, anche se gli obiettivi ci sembrano irrealistici e lontani. Il piacere è camminare. La gioia è farlo insieme.

Non vedo l’ora di condividere con voi il mio percorso sulla degooglizzazione, registrando il discorso che avrei fatto a Roma, e festeggiare con voi migliaia di piccole vittorie. Nell’attesa, se avete dubbi o curiosità su questo tema, rispondete pure a questa mail. Sarò felice di raccontarvi tutto quello che so.

Buona Settimana Sovversiva!
Kenobit

Se vi va, condividete questa mail con le vostre persone care e come sempre, se volete, rompere il muro della socialità online scrivendomi a kenobit@protonmail.com!

La Settimana Sovversiva
illustrazioni di Gianluca Folì