Apri nel browser
La Settimana Sovversiva

Ciao! Oggi la Settimana Sovversiva vi arriva dall’altro capo del mondo. Mi trovo in Argentina, al momento a Mar del Plata, per una serie di concerti con il Game Boy e per organizzare una cosa a cui tengo molto (della quale vi parlerò nel 2025). Essere qua è molto bello per un’infinità di motivi, ma la cosa più emozionante è senza dubbio vivere le tante piccole differenze culturali che emergono dalla quotidianità. Mi piacciono perché mi spingono a rimettere sotto la lente di ingrandimento idee che avevo archiviato come “risolte”, per smontarle e riassemblarle con più consapevolezza. Oggi vi parlo di una di queste piccole differenze e della lampadina che mi ha acceso. Vi scrivo un po’ come se foste un diario, perché sono troppo pigro per avere sia un diario che una newsletter. Spero che non vi dispiaccia!

Sono atterrato a Buenos Aires alle 8 del mattino, dopo un volo lungo ma miracolosamente comfortevole. Ho dormito quanto basta e l’emozione di essere arrivato cancella qualsiasi traccia di stanchezza. Ad aspettarmi, dopo il controllo dei passaporti, c’è il mio amico Hernán.

Non so voi, ma io amo la sezione degli arrivi degli aeroporti. Sono un’anomalia spaziotemporale e sentimentale, un luogo dove si aspetta, si aspetta, si aspetta, e alla fine arriva una persona e quell’attesa si trasforma in abbracci, lacrime o occasionalmente in cani felici che impazziscono perché rivedono il loro umano. Mi chiedo sempre che storia ci sia dietro ognuno di quegli abbracci.

Oggi il mio è un abbraccio intensissimo, perché Hernán è un improbabile fratello dall’altra parte del pianeta, e la nostra storia parla di una passione che ci ha unito, in barba alla geografia. Un giorno ve la racconterò tutta, ma per il momento vi basti sapere che anni fa ho scritto musica per un suo videogioco, e che da allora abbiamo organizzato feste, tour, fanzine... Ho portato Hernán a dormire nelle foresterie dei centri sociali meno lussuosi d’Italia e lui mi ha mostrato una Buenos Aires invisibile ai turisti, tra sale giochi segrete e panini notturni nelle piazze malfamate.

Che gioia vederci di nuovo. Ce l’abbiamo fatta un’altra volta! Saltiamo in macchina e andiamo a Haedo, una cittadina del cosiddetto “conurbano” di Buenos Aires, dove Hernan ha un piccolo studio che sarà la mia base per le prossime due settimane. Haedo è tecnicamente parte di una delle più grandi metropoli del mondo, ma ha un feeling da paesino. Non ci sono grattacieli che ti rubano un pezzo di azzurro, a ogni angolo c’è un baretto e le strade sono più strette per fare spazio agli alberi e ai prati. È un barrio con i suoi problemi, come tutti, ma ha un’atmosfera che mi fa stare istantaneamente bene. Si respira umanità, e non è cosa da poco, per uno che quindici ore fa era a Milano.

Non abbiamo impegni fino al tardo pomeriggio, quindi Hernán mi annuncia trionfalmente che è la nostra sarà una giornata all’insegna del “boludear”. Boludear significa esattamente “cazzeggiare”, ma deriva da un’altra parte dell’apparato riproduttivo maschile. È come se dicessimo “palleggiare”. Quanto sono buffe le lingue?

“Hernán, c’è ancora quella libreria accanto alla lavanderia?” “Certo!” “Cominciamo da lì, ti prego!”

yatay

Il posto si chiama Yatay Libros ed è un piccolo negozietto con libri, nuovi e usati, un paio di altoparlanti, un po’ di dischi e un tavolino fuori, dove la gente del quartiere si ritrova per bere una birra e fare due chiacchiere. L’insegna recita “Fomentando la cultura en el barrio”, e il gestore, Titor, fa esattamente questo, spacciando stimoli intellettuali sotto forma di testi, note ed eventi organizzati con spirito punk. Lo vedo, lo abbraccio e penso che vorrei una libreria come questa ogni 50 metri, in tutto il mondo.

Rispetto all’ultima volta che sono stato qui, Yatay ha una new entry: un cabinato di Street Fighter 2’: Champion Edition. I cabinati, per chi come me è nato nel secolo scorso, sono oggetti magici, ai quali è rimasto legato lo spirito dell’epoca che hanno attraversato. Negli anni ‘80 e ‘90, in Italia, ce n’era almeno uno in ogni bar, sotto i tendalini degli stabilimenti balneari e nei tabaccai delle stazioni. Contenevano giochi all’avanguardia, tecnicamente inavvicinabili per le primitive console domestiche, e per fare una partita bastava inserire una moneta o un gettone. Mi facevano impazzire.

Quello che ho davanti è un cabinato con una storia. Si tratta di un clone, ossia un mobile generico, prodotto in Argentina, per ospitare giochi sempre diversi, con schede “bootleg”, spesso e volentieri piratate (esattamente come succedeva in Italia). Sono oggetti ingombranti, ma ai quali rimangono attaccate tante emozioni. Ha anche un dettaglio molto speciale: la “marquesina”, ossia il vetro illuminato sulla parte alta del cab, è un originale di Ana María, l’artista che con la sua fantasia definì l’estetica delle sale giochi del paese. In molti posti, un cabinato come questo sarebbe a prendere polvere in un magazzino, o nel salotto di qualche appassionata. Invece è lì, acceso, pronto a fare quello per cui è nato.

anamaria Una marquesina di Ana María. Se volete leggere la sua storia incredibile, la trovate a pagina 15 di questa rivista.

Faccio una partita con Titor, gomito a gomito. Ai tempi di Street Fighter, il multiplayer aveva una componente fisica, che creava vicinanza e trasformava gli sconosciuti in compagni di gioco. Dopo aver battuto il suo Blanka, vengo sfidato da un ragazzino, nato almeno vent’anni dopo l’uscita di Street Fighter, chiaramente venuto da Yatay solo per giocare, ma che nel farlo sta frequentando un luogo pieno di stimoli, pensato non per sfruttare il suo tempo, ma per fargliene dono. Il giovincello, per la cronaca, mi ha battuto.

Attraversiamo la strada per andare a prendere una birra in una piccola panaderia, e con mia sorpresa anche lì, in un angolo, c’è un cabinato. Un vecchissimo Tetris, con un monitor un po’ spompato, ma ancora bellissimo. Faccio una partita con Hernán, sorseggiando una bionda, e gli dico che ritrovare i cabinati nei bar è stupendo. Com'è successo? Al che scopro una cosa incredibile. O meglio, credibilissima, ma che non mi aspettavo.

“Questi cabinati sono nostri. Li abbiamo recuperati e restaurati, e abbiamo iniziato a proporli gratuitamente ai locali del quartiere. I videogiochi sono fatti per essere giocati!”

Wow. Nella vita mi sono occupato di videogiochi, e negli ultimi dieci anni mi sono dedicato in particolare alla preservazione dei classici, nell’ambito definito “retrogaming”. Nel farlo, mi sono dovuto confrontare con il concetto di nostalgia. Molta gente vede i cabinati come reliquie del passato, simboli di un’infanzia perduta, e nel farlo mi sembra quasi mancare di rispetto a ciò che ama. È chiaro che provo un pizzico di amarcord, ripensando a quando avevo 12 anni e giocavo a Street Fighter ai bagni Kinka Vacanze di Spotorno, ma ridurre il suo valore al mio vissuto passato mi sembra riduttivo. Un giorno io non ci sarò più, e con me morirà la mia nostalgia. Se amo davvero qualcosa, devo farlo vivere, raccontandolo anche a chi non c’era, in modo che ciò che lo rende speciale mi sopravviva.

Vedere i cabinati nel loro habitat naturale mi ha regalato un’epifania. Quello che mi manca non è Street Fighter 2, perché se voglio ho mille modi per giocarlo, anche senza scomodare un cassone da un quintale con dentro un tubo catodico. Non mi manca Street Fighter 2, e mi sembra sciocco e presuntuoso dire che “oggi giochi così belli non vengono più fatti.” Anche perché, semplicemente, non è vero.

Ciò che rivorrei è un mondo nel quale in angoli random ci sono oggetti nati per il divertimento e la socialità, che uniscono le persone, anche solo per lo spazio di una partita. Mi manca l’emozione che generavano i cabinati, non l’oggetto in sé.

La nostalgia è un sentimento pericoloso, perché a volte sbaglia mira.

È un pensiero che mi fa bene al cuore, perché non possiamo riportare indietro la nostra infanzia, né rubare una Delorean per tornare nel 1989, ma possiamo riprenderci ciò che ci rendeva felici, se lo mettiamo a fuoco. Se ragioniamo fuori dall’ottica del profitto e ci curiamo la malattia della proprietà privata, pensando meno al nostro ego e più alla collettività, possiamo riavere ciò che ci sembrava perso nelle nebbie del tempo. Senza bisogno di fare miracoli, senza chiedere il permesso. Questa piccola operazione di Hernán e i suoi soci è una minuscola perturbazione della Forza, percepibile solo a livello locale, di quartiere, eppure mi sembra rivoluzionaria.

Cosa ci impedisce di fare la stessa cosa in Italia? Niente. E se possiamo farlo con i videogiochi, con quante altre cose possiamo farlo? Basta solo cambiare mentalità e capire cosa vogliamo realmente.

Basta con questo disfattismo dei bei tempi andati. Possiamo riprenderci anche quelli, un baretto alla volta. Dobbiamo solo mettere a fuoco i nostri desideri.

Buona Settimana Sovversiva!
Kenobit

La Settimana Sovversiva
illustrazioni di Gianluca Folì