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La Settimana Sovversiva

Questa Settimana Sovversiva vi arriva in ritardo rispetto al solito lunedì, un po' perché sono in tour con Zona Warpa, un po' perché il clima di libertà che sto respirando in questi giorni mi ha riacceso l'ispirazione e mi ha dato la forza di continuare a scrivere una storia che ho dentro da tanto tempo. Parla di cibo, di un brutto incidente di infanzia e di un percorso di guarigione. Non è ancora stata riletta né editata, ma mi piace l'idea di condividerne con voi i primi due capitoli, perché in questo spazio sento un'intimità che mi mette a mio agio. Questa settimana il mio pensiero sovversivo è dedicarmi a qualcosa di deliziosamente inutile, come raccontare una storia personale. Dopo tanto tempo, sento di essere pronto per finirla.

Buona Settimana Sovversiva!
Kenobit

L'ALBERO DI MELE

Fabio, vieni a far vedere i tuoi disegni alla mamma, che non trova mai il tempo di venirti a trovare!

È uno dei primi ricordi della mia vita, uno di quei fotogrammi che ti rimangono impressi a fuoco nella memoria, fin nei minimi dettagli. Ero sul pavimento giallo dell'aula dell'asilo, avevo i pantaloni della tuta rossi e stavo costruendo un castello con un set di Duplo. Era il giorno delle visite dei genitori. Ai tempi non avevo gli strumenti per riconoscere la violenza che c'era in quelle parole. Mi alzai e corsi felice a mostrarle i miei capolavori.

Mia mamma aveva un grave difetto, agli occhi delle due maestre: con il suo lavoro a tempo pieno non poteva venirmi a prendere tutti i giorni. Il fatto che a farlo fosse il nonno, per il quale stravedevo, e che a casa mi aspettasse un mondo di affetto, non aveva importanza. Per Giovannina e Pinuccia la mia era una madre di serie B e io, per qualche meschina vendetta, ero a mia volta un bambino di serie B.

Se ve lo state chiedendo, sì, si chiamavano davvero così, e no, non ho scelto due nomi da sorellastre di Cenerentola per rappresentare il loro grottesco bullismo. Non ricordo che faccia avessero, ma ho ancora nelle orecchie il suono di quei nomi, acido e corrosivo come i toni che mi riservavano. Ero un bambino obbediente e rispettoso dell'autorità, caratteristica che fortunatamente ho perso con gli anni, e loro erano due adulte. Andare all'asilo non mi piaceva perché mi facevano paura, ma non dicevo niente perché credevo che fosse normale così.

Ho rimosso quasi tutto, di quegli anni, salvo pochi episodi emblematici. Un giorno, per esempio, ci diedero degli scoiattoli da colorare, per poi ritagliarli e incollarli sul cartoncino. L'idea mi piacque tantissimo, perché mi divertivo a giocare con le action figure e trovavo molto affascinante la possibilità di farle in casa. Presi la matita blu e iniziai a colorare con convinzione il mio roditore cartaceo, con qualche anno di anticipo sulla nascita di Sonic, il porcospino cromaticamente bizzarro. Giovannina mi sgridò, mi disse che ero stupido e che avrei dovuto colorarlo di marrone. Ricordo perfettamente anche quell'istante: quel giorno c'era il sole e io stavo dando le spalle alla finestra, la stessa che fissavo per buona parte della giornata, nella speranza che arrivasse il nonno a prendermi.

Un giorno Pinuccia portò in classe una melagrana per mostrarcela e farcelo assaggiare. Il frutto mi faceva impressione, non mi piaceva la consistenza dei grani e il sapore era troppo acidulo per il mio palato dell'epoca. Se chiudo gli occhi, ancora oggi, sento il tono di disprezzo con cui mi fu detto di non rompere e di mangiarne tutta la mia parte. Ero un bambino obbediente e non feci storie, ma nella mia testa il cibo iniziava a sovrapporsi al trauma e all'imposizione. Se qualcosa non mi piaceva, in mensa, avevo paura di essere sgridato, cosa che succedeva più o meno quotidianamente, perché il mio appetito aveva già iniziato a scemare. Tutti i giorni temevo il momento di sedermi a tavola.

Penso spesso al cortile dell'asilo di via Giusti, non tanto per quando ci facevano giocare a mago libero e a strega comanda colore, ma perché tutti i giorni davo un singolo morso alla mela che ci davano a fine pasto, la nascondevo nel grembiulino e poi la gettavo di nascosto nel primo cespuglio, facendo finta di averla mangiata. Mi sembra di vederlo ancora, come una Polaroid dell'infanzia, pochi metri fuori dalla porta del refettorio. Era il mio complice, il mio segreto, il segnale che il momento peggiore della giornata era finito e potevo tornare a giocare. Mi piace pensare che oggi, lì, ci sia un albero di mele, nato dai miei primi atti di ribellione.

Non ricordo quale fu l'episodio scatenante: forse una lavata di capo davanti a un pezzo di merluzzo, il dolore di sentirmi trattato come uno scemo o l'improvviso traboccare di tutte quelle parole velenose che suggerivano che la mamma non mi voleva bene. Non me lo ricordo, giuro. Fatto è che un giorno, di punto in bianco, smisi completamente di mangiare. Anoressia infantile, un rifiuto totale della dimensione del cibo e del nutrimento. La mia famiglia corse ai ripari e mi levò dall'asilo, ma il danno era fatto.

I miei lavoravano, quindi di giorno stavo con il nonno Tino e la nonna Enza, con i quali iniziò il lento processo della guarigione. Con buona pace delle illazioni di quelle due, avevo e ho una famiglia meravigliosa, pronta a gettarsi nel fuoco per darmi una vita felice. Scrivo queste parole con le lacrime agli occhi, ma è una vita che sento il bisogno di raccontare quello che mi è successo. Ho paura dell'intensità di questi ricordi, perché alcuni sono così dolci da fare male, però voglio farlo, un po' per me, per salvare su un supporto fisico il miracolo dell'affetto dei miei cari, un po' per il resto del mondo, nella remota ipotesi che il mio percorso possa offrire sollievo o ispirazione a chi, per qualunque motivo, ha litigato con il cibo.

Questa è la storia di due maestre che mi hanno voluto male e di una miriade di persone che mi hanno amato. Vi prometto che ha un lieto fine.

I SETTE SENTIMENTI

Ho solo ricordi sparsi, di quel periodo. So solo che andavo all’asilo, che era un posto che mi faceva stare male e che mi ci accompagnava il nonno. Tutte le mattine mi portava in spalla in via Paolo Sarpi, poi giravamo a sinistra e c’era quell’edificio rosso. Arrivavamo al cancello, entravo in classe, guardavo fuori dalla finestra e lui restava lì per farmi un sorriso e salutarmi. Per il resto della giornata aspettavo solo che tornasse. All’inizio i miei non potevano saperlo, perché non raccontavo niente a casa. Non avevo gli strumenti per capire, davo per scontato che fosse giusto così e forse non parlavo ancora abbastanza bene da esprimere un concetto così complesso. Quando ci ripenso, la violenza più grande mi sembra proprio quella disparità, il fatto che quella complessità venisse inflitta a un bambino troppo piccolo per decifrarla, e che quindi la percepiva solo come cattiveria allo stato puro, come un cane che prende una bastonata.

Giovannina e Pinuccia erano cattive. Questo pensiero sì, lo ricordo nettamente. Nella vita ho riflettuto molto sul concetto di cattiveria. Chi è realmente cattivo? Nasciamo cattivi, o lo diventiamo perché siamo stati vittima di altra cattiveria? E se è così, chi è il primo cattivo della storia? Da dove nasce la cattiveria? Ci sarebbe violenza, se ci fosse veramente giustizia e nessuno avesse più diritti degli altri? Se incontro una persona cattiva, devo arrabbiarmi o chiedermi chi le ha fatto del male? A tre anni non conoscevo queste sfumature. Il mio mondo era organizzato secondo un sistema binario: i cattivi e i buoni. Zero o uno, un bit di informazione. Cattivo era la stessa parola che usavo per il bambino che mi spingeva al parco e per la maestra adulta che mi avvelenava le giornate. I momenti di gioco e serenità con lǝ altrǝ bambinǝ erano interrotti dall’ansia di avere a che fare con Giovannina e Pinuccia, che tutti i giorni culminava con il momento del pranzo. Ricordo anche questo fotogramma: io seduto a un tavolino azzurro, in sala mensa, con a sinistra i finestroni e la pioggia in splendeva in cortile. Un piatto con dentro qualcosa che non mi piace, la paura di una lavata di capo, il disgusto per ogni boccone mandato giù con sommo sforzo. È bruttissimo vivere aspettando un momento tremendo che si ripropone tutti i giorni.

Poi, da un giorno all’altro, all’asilo non andai più. Non so cosa sia successo di preciso, ma smisi di mangiare, del tutto, nel senso che mi si era chiuso qualcosa dentro e il cibo non passava più. I miei capirono che c’era qualcosa di profondamente sbagliato e decisero di tenermi a casa, dove i nonni, ai tempi cinquantenni e in pensione, si sarebbero potuti prendere cura di me mentre loro erano in ufficio. Io non mi feci molte domande. La cosa che non mi piaceva era finita e potevo stare tutto il giorno con il nonno Tino, che era la persona più importante della mia vita. Con lui ero felice.

Mi portava a giocare al parco Sempione, dove c’era una locomotiva di ferro battuto e una pista con le macchinine elettriche che mi piaceva da impazzire. Faceva di tutto affinché potessi giocare con le altrǝ bambinǝ e non mi venisse a mancare quella fase cruciale della socializzazione, ma non solo. Mi portava a vedere il mondo, spiegandomi come funzionava, e faceva salti mortali per darmi tutti gli stimoli che potessi sognare. Alberto Benaglia, questo il suo nome, si era fatto volere bene, nella vita, e aveva un sacco di amici interessanti a cui chiedere un favore per il suo nipotino.

Una volta mi portò all’aeroporto di Bresso, in visita alla torre di controllo. In quella stanza con la moquette blu vidi tutti gli strumenti, con le scritte e le lucine, ma soprattutto vidi tantissimi panai. Quando vedevo un aereoplano mi illuminavo, indicavo con urgenza e urlavo “PANAIO”. Per anni, panaio rimase un caposaldo del nostro lessico familiare, insieme al battibalocchio, il mio involontario portmanteau tra “battibaleno” e “batter d’occhio”. Quando tornavamo a casa, il nonno Tino mi costruiva giocattoli con il suo banco da lavoro, spiegandomi la funzione di tutti gli attrezzi (che, per la cronaca, chiamavo “apprezzi”, da cui nacque l’esilarante carro apprezzi). Il mio preferito era il tornietto, che si controllava con un pedale e girava con una cinghia di gomma piacevolissima al tocco. Nella vita aveva lavorato in un’orologeria di lusso in centro a Milano, quindi mi faceva vedere come funzionava il movimento della pendola in salotto, mi diceva il nome degli ingranaggi e smontava le sveglie per farmeli vedere nel dettaglio. Mi piaceva tantissimo giocare con il suo monocolo da orologiaio, che andava incastrato tra l’arco del sopracciglio e lo zigomo, in una smorfia da cartone animato. “È la mia ombra”, diceva di me quando incontrava un amico, e quando lo diceva aveva gli occhi che brillavano. Era davvero il mio mondo.

Avete presente quegli adulti stupidi che fanno domande idiote ai bambini, tipo “Cosa vuoi fare da grande?” e “A chi vuoi più bene, alla mamma o al papà?” Io rispondevo, senza pensarci: “Al nonno,” perché le scelte obbligate non mi piacevano neanche all’epoca. Gli volevo così tanto bene che lui, pur essendo in perfetta salute, si chiese che fine avrei fatto se gli fosse successo qualcosa. Non era uno psicologo, ma era chiaro che fosse la figura a cui mi ero legato per riemergere da un trauma, quindi ideò un piano per attutire il colpo in caso della sua prematura scomparsa. Mi disse: “Fabiulìn, sai, un giorno potrei dover andare in America per lavoro. Potrei stare via per tanto, ma tu non ti preoccupare.” Un giorno, mi disse che mi avrebbe lasciato solo con la nonna Enza, perché doveva andare a fare una commissione e non sapeva quando sarebbe tornato. “Nonno, vai in America?” “Per carità, no, no, vado in Brianza!” Ho capito qualche anno dopo perché la nonna iniziò a ridere a crepapelle.

In tutto questo, però, continuavo a non mangiare. Ero un bambino sensibile e percepivo che la mia totale mancanza di appetito creava grandi preoccupazioni a tutta la mia famiglia. Detestavo il momento di sedermi a tavola, perché sapevo che la mamma si sarebbe rabbuiata, vedendomi mangiare solo un paio di bocconi, e controvoglia. Lei mi sorrideva e faceva finta di niente, ma io lo capivo e mi sembrava terribile farla stare male. Ancora oggi, la mia più grande paura è deludere le persone che mi vogliono bene. Ci credete che prima di scrivere queste righe non avevo mai unito i puntini? Non sono nemmeno io uno psicologo, ma penso proprio che venga da quei momenti, che pur nella mia fanciullezza vivevo con grande intensità emotiva. Del resto, la preoccupazione della mia famiglia era concreta e giustificata; mi portarono da vari dottori e si scoprì che stavo avendo un arresto di crescita, che probabilmente non avrei mai recuperato.

L’unico pasto che consumavo con piacere era la colazione: latte con cacao in polvere di quella nota azienda, la stessa che avrei odiato e boicottato da adulto. Doveva essere preparato seguendo una precisa serie di passaggi: prima bisognava fare la miscela, un mix di zucchero e cacao da considerarsi pronto solo quando i puntini bianchi erano perfettamente distribuiti, poi bagnato con un cucchiaio di latte. Era un liquido densissimo, scurissimo e dolcissimo, e quando lo assaggiavo sentivo il cric croc dei granelli sotto i denti. Solo dopo averlo ottenuto si poteva aggiungere il latte, che doveva essere caldo, ma non troppo. Era una ritualità specifica, nata per gioco con mia mamma, nella quale ricominciavo ad associare il nutrimento alla sicurezza, alla consuetudine, alla casa. Chi pensa che i riti siano solo gesti vuoti si nega un pezzo di umanità importante, o se non altro si perde per strada del significato, che poi è la risorsa più preziosa, in un mondo che spesso sembra non avere senso.

Capitava, di tanto in tanto, che mia mamma dovesse uscire di casa prima, e che la sacra incombenza della colazione ricadesse sulle spalle del nonno. Un giorno mi portò il latte, ma l’aveva preparato senza che potessi accertarmi del rispetto del protocollo. Feci qualche storia, ma lui mi disse: “Fabiulin, te l’ho fatto con i sette sentimenti.” I sette sentimenti erano una delle tante espressioni particolari del nonno, come “Te lo do io il tabacco del moro”, che voleva dire “Guarda che ti do una lezione”. Anni dopo gli chiesi cosa fosse questo famigerato tabacco del moro, e lui mi rispose che non lo sapeva, e che era una cosa che gli diceva suo nonno quando si arrabbiava. Dovetti aspettare Internet, per risolvere il mistero: “il tabacco del moro” fa riferimento a un tabacco particolarmente forte, di quelli che danno alla testa, sulla cui confezione era raffigurato uno degli schiavi che lo coltivavano nelle colonie americane. Tengo a specificare che il tabacco del moro che mi veniva somministrato era solo metaforico e che il nonno non mi ha mai sfiorato, se non con quello sguardo severissimo che gli veniva quando perdeva le staffe.

Quella dei sette sentimenti, invece, rimane tuttora una sfinge. Vengono citati in questa forma solo nel taoismo e nella medicina cinese, ma mi sento di escludere che il nonno fosse entrato in contatto con quel mondo. Il fatto di non saperlo mi piace, perché la rende una cosa fortemente nostra, un modo di dire legato, nello specifico, a quella mattina a colazione. Non avevo visto la preparazione, ma i sette sentimenti del nonno mi parvero una garanzia sufficiente. Il latte era buonissimo e buttò giù una delle tante barriere che avevo davanti nel ritrovare il mio equilibrio. Fu uno dei primi piccoli passi verso la guarigione. Il cibo è cura. Il cibo è fatto di cure. Il cibo è la somma dei suoi nutrienti chimici e delle attenzioni invisibili che vengono dedicate alla sua preparazione. In quel latte col cioccolato c’era tutto l’amore della mia famiglia, in un formato pratico da ingerire e di facile assimilazione. L’affetto che rimane intriso nel cibo non è misurabile con strumenti scientifici, ma esiste e fa la differenza. Penso spesso al nonno, che era un disastro ai fornelli, che si metteva con impegno a preparare una tazza latte seguendo un procedimento bizantino, nella speranza che il nipotino assumesse abbastanza calorie da arrivare fino a sera. Quello dei sette sentimenti è un amore che sento ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, che non ha mai smesso di curarmi.

Se mi avete letto fino a qui, vi ringrazio di cuore per l'attenzione. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. Potete rispondere a questa mail oppure, meglio, scrivermi a kenobit@protonmail.com.

La Settimana Sovversiva
illustrazioni di Gianluca Folì